Suggerimenti del Caregiver

L’Alzheimer e la tecnologia

In un mondo tecnologico come il nostro è a volte difficile ricordare i tempi in cui non esisteva l’elettronica. La comunicazione usava allora altri strumenti: la posta, ad esempio, che ha dato origine a bellissime lettere, documenti preziosi spesso ancora archiviati nelle biblioteche istituzionali, o semplicemente nelle librerie delle nostre case. Veniva allora sfruttato il tempo intercorso tra una lettera e l’altra per pensare alla risposta adeguata o semplicemente per fare una riflessione su se stessi. Anche per il telefono bisognava passare attraverso un centralino, lento senza dubbio, ma che rendeva tanto più emozionante l’attesa e presente la voce dell’interlocutore, e rappresentava un momento magico di comunicazione. Non vorrei certo criticare il ruolo insostituibile dei nuovi mezzi di comunicazione. Tuttavia bisogna riconoscere che, anche per chi non ha alcun disturbo cognitivo, sono spesso fonte di profonde frustrazioni. Basta ricordare gli annunci emessi da sistemi ormai universali con voci metalliche ed asettiche: “tutti gli operatori sono occupati”, “attendere un linea per non perdere la priorità acquisita”, priorità che raramente si materializza nella voce accogliente di un operatore. Ma per tornare al tema delle innovazioni tecnologiche, parliamo anche del loro effetto sui nostri malati. Per loro sono veri e propri ostacoli, a volte insuperabili. Ricordo ancora quando ho regalato a mio marito malato un orologio digitale. Da quel giorno non è più stato in grado di leggere l’ora, le cifre che apparivano sul piccolo schermo non avevano per lui nulla a che vedere con le sfere dell’orologio tradizionale. Lo stesso ci è capitato con il telefono a tastiera. Francesco sapeva ancora chiamarmi con il vecchio telefono a disco, ma non è stato capace di trasferire sul nuovo i numeri che conosceva ancora a memoria. Altro particolare, prima della malattia, mio marito si divertiva molto a creare sul computer i disegni e gli ambienti delle case che doveva rinnovare, essendo un architetto d’interni, ma poco dopo che l’Alzheimer l’ha colpito, il computer, il suo sostegno tecnico, è diventato improvvisamente un oggetto estraneo e misterioso che esitava ad accendere. All’inizio della malattia lo avevo munito di un cellulare, temendo che non sapesse ritrovare la strada di casa al ritorno dalle lunghe passeggiate che amava fare. Non ha mai imparato a rispondere al tema di una sinfonia di Mozart molto amata che avevo impostato come suoneria sul telefonino per destare la sua attenzione, né ha mai usato quel mezzo per comunicare con me. Anche dal punto di vista del caregiver si sono acuite le difficoltà, ad iniziare dal passaggio dalla la lira all’euro. Lo scompiglio del cambiamento ha impedito a mio marito di fare i pochi acquisti quotidiani ai quali era abituato e che lo aiutavano a strutturare la sua giornata. In questa piccola rivoluzione, molti sono stati i caregivers che hanno dovuto inventare nuove strategie per aiutare il loro paziente a superare quel momento. La malattia di Alzheimer, come ben sappiamo, colpisce soprattutto le persone anziani ed i loro caregivers sono spesso mogli o mariti. L’avvento di Internet ha creato disagio a non poche famiglie che si sono trovate impreparate di fronte alla nuova tecnologia e alla necessità di imparare ad usare il computer. Poco tempo è stato dato a queste persone per capire il significato dei simboli trasmessi per accedere alle informazioni. “Cosa vuol dire vuvuvu?” mi chiedeva perplesso Francesco quando ascoltavo la radio o la televisione. Come potevo spiegarglielo… Coloro che gestiscono i mezzi di comunicazione di massa dovrebbero tenere conto delle difficoltà che provano gli ascoltatori, spesso anziani e a volte con disturbi cognitivi, e cercare, nella misura del possibile, di mandare in onda messaggi semplici, illustrativi ed informativi, atti ad aiutare le famiglie, che non hanno o non sanno usare il computer, a tenersi al corrente di eventuali nuove terapie o scoperte in campo medico od altro, prima di lanciare il “vuvuvu”. Federica Caracciolo
L’oggi e il domani per il caregiver

Il titolo del convegno “l’Oggi e il domani” si collega perfettamente alle scelte che deve operare quotidianamente il caregiver. L’oggi lo conosce già, in parte, con il suo pesante fardello di responsabilità, di stress, di strategie concepite e respinte per far posto ad altre forse più risolutive, di speranze spente, di scoraggiamenti e di piccolissimi progressi compiuti su quella strada in salita che è la cura dell’Alzheimer. Potrei continuare all’infinito ad elencare le sfide ed i fallimenti che scandiscono la giornata delle persone che si dedicano ad un malato di Alzheimer. Li conosciamo tutti, noi che abbiamo, volenti o nolenti, abbracciato il mestiere di caregiver.

Quello che è meno noto, e più personale, è la maniera in cui viene percepito il domani. Si può trattare di un domani immediato da risolvere senza indugi o di un domani più lontano che non siamo in grado di configurare. Le reazioni variano. C’è chi vorrebbe saperne di più per prepararsi a sfoderare tutte le armi disponibili per combattere, magari per sconfiggere, il male, e per non trovarsi impotenti ed ignari di fronte alla sua evoluzione. Queste persone trovano il coraggio di informarsi sui diversi aspetti della malattia e sui suoi effetti sul malato, di ricercare nei giornali, su internet o nei libri specializzati le nozioni che daranno loro la possibilità di crearsi una corazza protettiva fatta di consapevolezza.

Ma c’è chi invece preferisce ignorare, sentendosi già sufficientemente colpito dalle prove quotidiane, ed è riluttante ad aggiungere nuove minacce, magari solo intuite, al gravame di quelle reali. Queste persone tendono a non ascoltare le esperienze altrui, e si dibattono in mezzo a dubbi che non hanno ancora spento le speranze. Si aggrappano al minimo accenno di una scoperta scientifica e sperano che aprirà una breccia nel muro apparentemente invalicabile che li circonda.Tutti noi abbiano oscillato tra questi due comportamenti. Il non voler sapere è comprensibile per chi non ha ancora accettato la malattia e cerca disperatamente ragioni per negarla, alimentando così ancora un ultimo barlume de speranza: è un atteggiamento che non conduce alla serenità e al controllo delle emozioni indispensabili nel caregiver, ma che provoca più angosce e più paure.

E’ invece il primo atteggiamento che pare il più positivo: il caregiver informato è forte. Sa che cosa aspettarsi, ha studiato l’evoluzione della malattia, ha ascoltato le esperienze di altri familiari e ne ha tratto insegnamenti e non coltiva false speranze. Queste persone si trovano pronte ad aggredire frontalmente il nemico, sapendo che tener la testo sotto la sabbia serve solo a rendersi più vulnerabili. Coloro che hanno assunto la responsabilità del malato devono dare prova, non solo di compressione e di compassione, ma anche di fermezza e di risolutezza, atteggiamenti che permetteranno loro di uscire vittoriosi da quella strana e dolorosa battaglia che è la cura dell’Alzheimer.

Federica Caracciolo

E’ corretto sostenere che il malato di Alzheimer sia illogico?

La malattia di Alzheimer, ormai conosciuta anche dal grande pubblico, rischia di dare luogo ad una generica banalizzazione di segni e sintomi.
In realtà, se osserviamo bene il malato, ci accorgiamo che la sua capacità di ragionare rimane a lungo intatta, anche se il ragionamento si basa su oggetti dei quali non percepisce più bene il significato e la funzione.

Esiste, infatti, in lui un sottile filo – molto individuale – che collega il suo pensiero alle sue azioni. Dire che questo pensiero sia del tutto sconnesso è sbagliato, così com’è sbagliato paragonarlo al nostro. Nella mente del malato si instaura una nuova realtà, che sostituisce quella precedente e che governa il suo nuovo comportamento: conserva una certa capacità di ragionare, ed anche se i mezzi usati per esprimere od illustrare il suo ragionamento a noi paiono insensati, dimostra spesso nell’uso di questi una grande logicità.
Ad esempio, in preda ad allucinazioni, il malato di Alzheimer reagirà in modo logico rispetto ad immagini che percepisce come vere. Se tali immagini provocano in lui un sentimento di paura o di pericolo, egli si difenderà aggredendo.
Un padre che non riconosce più il genero, ma lo prende per un estraneo introdottosi clandestinamente nella camera da letto della figlia, cercherà, per proteggerla, di picchiare l’intruso e di mandarlo via da casa.

Niente di strano se, nell’intento di arricchire un vaso di ciclamini, afferra una manciata di cucchiaini e li conficca nel vasetto a mo’ di piantine, non facendo distinzione tra fiori e cucchiaini.
Oppure se, timoroso della polizia, con la quale, magari, ha avuto un diverbio in passato, dispone, ogni sera, davanti alla porta d’ingresso grandi ciotole di pastasciutta al pomodoro cucinata da sé, nella speranza di ammansire i poliziotti.
Questi atti, compiuti da persone sane, ci farebbero sorridere e, scuotendo con indulgenza il capo, dire: “Ma questo è matto!” Invece le medesime azioni compiute da un malato siffatto diventano, per noi, motivo di costernazione, e ci affrettiamo a rimetterlo sul “giusto” binario, dimentichi del fatto che, per lui, la sua realtà è altrettanto valida quanto la nostra.
La perdita della memoria intensifica gli atteggiamenti che chiamiamo incoerenti. Ma che cosa vi è di più logico, per chi non ricorda quello che ha detto un minuto prima, di tornare sull’argomento e di ripetersi all’infinito?
Queste ripetizioni ossessive provano in noi impazienza ed irritazione, ma il malato, nel suo contesto patologico, si comporta in modo perfettamente logico per lui.
Anche la tendenza al ritorno alla casa del infanzia è una prova di ragionamento coerente. Se il malato non riconosce la casa nella quale si trova, che cosa c’è di più logico che cercare di tornare a quella che, invece, ricorda bene e che rappresenta la sicurezza?
Quando guardiamo perplessi e spesso critici i giovani d’oggi, con i loro capelli tinti, gli anelli che forano il naso e le labbra, non osiamo interferire e accettiamo in silenzio queste forme di dissociazione dalle nostre regole di vita ben ancorate alla tradizione. Perché, allora, irritarsi se il malato, volendo aiutare la moglie, apparecchia il tavolo per sei, quando la famiglia è composta da solo due persone? Per lui si tratta di un’azione perfettamente logica dato che gli ospiti che ha creduto di vedere poco prima in soggiorno erano per lui delle persone in carne ed osso.

Se le incongruenze del malato non incidono in modo sconvolgente sul nostro modo di vita, e non rappresentano per lui un pericolo, si può benissimo convivere con esse senza dover cercare, ad ogni costo, di riportare il malato sulla “retta via”. Non intervenire ed accettare queste bizzarrie, con una scrollata di spalle, è anche una forma di rispetto da parte nostra nei confronti della sua particolare condizione.
Da giovani eravamo attratti da tutto quello che usciva dall’ordinario e, per affermare la nostra indipendenza ed individualità, volevamo essere a tutti costi diversi dagli altri. Cerchiamo, dunque, di decodificare il comportamento del nostro familiare, di imparare a conoscere il modello ch’egli segue, e con molta pazienza e moto amore, di scoprire il filo sottile che lo collega al mondo che orami gli è familiare.

Federica Caracciolo

Dopo…

Abbiamo parlato spesso sulle pagine di questo giornale dei gravi e molteplici problemi che sono chiamati a fronteggiare ed a risolvere quotidianamente i familiari di malati di Alzheimer; abbiamo evocato strategie di adattamento e suggerito soluzioni atte a facilitare il compito del caregiver familiare e dare serenità al paziente in modo da migliorare per ambedue la qualità della vita.

Ma non abbiamo parlato di ciò che avviene dopo la scomparsa della persona amata e della nuova situazione che si viene a creare. Anche in questo caso affiora una serie di problemi da affrontare. Importante tra questi è il grande vuoto con il quale occorre convivere, un vuoto tanto più profondo quanto più intenso è stato l’accudimento e che, spesso, fa cadere il caregiver in uno stato di depressione dovuto alla scomparsa dell’impegno che lo aveva sorretto durante tutti gli anni della malattia. Il lutto può essere molto duro da elaborare, anche perché si accompagna a dolorose reminiscenze. E’ difficile separare il ricordo, l’immagine della persona cara, resa invalida ed impotente dalla malattia, da quella che si vorrebbe preservare e che la vede nella pienezza delle sue facoltà mentali. Infatti, mentre vorremmo ricordare il nostro caro nei momenti di maggior attività fisica ed intellettuale e di massimo rendimento, ecco che si sovrappone insistentemente l’immagine di un essere indifeso e totalmente dipendente.
La casa appare improvvisamente troppo grande e silenziosa e si sente la mancanza addirittura delle persone assunte in qualità di badanti, dopo mille esitazioni all’inizio della malattia, e che negli anni in cui hanno prestato i loro servizi sono diventate parte della famiglia. La vita che era stata strutturata intorno alle necessità del malato, con la giornata articolata seguendo ritmi ben precisi ed inamovibili, sembra aver perso ora il suo vero senso. Il nuovo spazio resosi disponibile è difficile da riempire con azioni mirate e significative ed il tempo, che sembra interminabile, scorre con improvvisa lentezza. E’ il momento di reinventare la propria esistenza in base a nuove linee e nuovi scopi e darle un diverso significato, ma l’impresa è alquanto ardua.

Non mancano neppure i sensi di colpa. Colpa per non avere fatto forse abbastanza per il malato, per non avere sempre saputo trattenere l’irritazione e l’impazienza, per avere anche a volta sperato di avvicinare il traguardo finale, ponendo così fine alla dolorosa prova. Sono tutte reazioni normali. Le abbiamo provate tutti, ma ecco che, adesso, ce ne colpevolizziamo e ce ne addoloriamo, temendo di avere voluto accelerare in tal modo la “partenza” della persona cara.
C’è anche chi si rimprovera il senso di sollievo provato al termine della lunga lotta sostenuta per mantenere in equilibrio la vita familiare, in mezzo allo sconvolgimento che reca il malato senza volerlo, e per soddisfare le proprie giustificate esigenze. E pur sentendosi finalmente libero dalle tensioni, le frustrazioni e le responsabilità che lo facevano sentire come derubato da un parte della propria esistenza, si vergogna di questo senso di libertà.
Ma c’è anche chi desidera sfruttare le esperienze acquisite per aiutare altre persone ancora alle prese con la lotta quotidiana, e che trova così la forza di colmare il vuoto dell’assenza e di vincere la solitudine offrendo i propri servizi volontari per promuovere azioni di assistenza e di solidarietà..

Federica Caracciolo

Quando il caregiver diventa…un persecutore

Nella gestione della malattia di Alzheimer, il caregiver può, inconsapevolmente, assumere il ruolo di persecutore. Infatti, il malato non solo è incapace di assimilare gli insegnamenti, ma tende progressivamente a dimenticare quelli appresi in precedenza. Il caregiver è dunque costretto ad intervenire in modo spesso autoritario, ad impartire ordini e ad imporre talvolta con estrema fermezza la sua volontà e le sue decisioni. Così facendo, senza volerlo, può apparire agli occhi del malato come un “persecutore”.
E’ lui ormai che organizza la vita del paziente, che lo plasma conformemente ad un modello scelto, e che reprime le reazioni improvvise che disturbano il sereno andamento della vita quotidiana.

La giornata del paziente viene articolata con ritmi rigorosi per difenderlo, è chiaro, dai pericoli casalinghi: il gas acceso, il rubinetto aperto che rischia di inondare la casa, gli oggetti taglienti di troppo facile accesso, la possibilità, sempre in agguato di una fuga. Per evitare tutti questi disagi, misure drastiche vengono applicate: la porta di casa chiusa a chiave, le posate fatte scomparire e la macchina stessa mandata a tempo indeterminato dal meccanico, insieme a tanti altri divieti che vengono messi in atto a secondo della pericolosità. Ed ecco che il paziente, senza saperlo, si trova agli arresti domiciliari.
All’ora dei pasti siamo ancora noi a decidere il menu, evitando le pietanze più gustose a favore di quelle consigliate dal medico, eliminando così i cibi preferiti che rischiano di alzare il tasso di colesterolo e negando il secondo bicchiere tanto atteso di vino. E quando il malata reclama il suo pranzo, dimentico di averlo già consumato, non gli rimane che sgranocchiare una mela acerba o succhiare uno spicchio di arancio.

Anche l’abbigliamento è oggetto di un intervento esterno: i lacci delle scarpe fanno posto a patte di velcro, i bottoni sono sostituiti da chiusure lampo, spesso non più pantalone e giacca ma tute di pile, e la repressione della maggior parte delle autonome decisioni prese dal malato.
E’ vero, tuttavia, che tutte queste misure hanno per finalità il bene del malato, e che nel sostituirsi a lui molti incidenti possono essere evitati, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia in cui il paziente è ancora molto attivo e conserva un certo grado di autonomia.
Certo non è facile trovare il giusto equilibrio tra il nostro timore del pericolo, il desiderio di proteggere il malato, il nostro bisogno di serenità e de libertà, e le irrazionalità con le quali siamo confrontati quotidianamente.

Nella gestione della malattia, il caregiver deve adempiere a una doppia funzione: per non sprofondare nella depressione e nella frustrazione, deve badare senz’altro a riservarsi spazi propri, ma allo stesso tempo è tenuto a rispettare i gesti e le espressioni che permettono al malato di ricollegarsi con il proprio passato ed il proprio mondo.
In breve, la casa non deve diventare una prigione, ma rimanere uno spazio aperto in cui ognuno, compiendo le azioni familiari, continua a sentirsi padrone del proprio ambiente.

Federica Caracciolo

Perché questi sensi di colpa?

I periodi di sollievo, l’abbiamo più volte ripetuto in questo giornale, sono essenziali non solo per conservare la propria salute fisica e mentale, ma anche per essere meglio in grado di dare al familiare malato tutta l’assistenza di cui ha bisogno. E’ per questo ce sono state create strutture in cui il paziente affetto da Alzheimer può essere ricoverato, per un periodo relativamente breve. Tuttavia, il sollievo che dovrebbe determinare nel caregiver l’allontanamento temporaneo del familiare malato non è totale e in molti casi si accompagna con un senso di profonda colpa.

Ho sentito più persone esprimere questo sentimento:
“Ho ricoverato mio marito in una struttura di sollievo, perché ero esausta dalle cure continue e dal suo rifiuto ostinato di collaborare. Ed adesso invece di provare sollievo provo un acuto senso di colpevolezza. Ma allo stesso tempo ho bisogno di allontanarmi per un po’ dai problemi che erodono la mia serenità. Non so più come comportarmi.”
Oppure: “Ho messo mia madre in una struttura di sollievo dove si trova molto bene. Però ora non so che fare di tutto il tempo libero che mi ritrovo: non so come organizzarlo. Le giornate mi sembrano interminabili e, benché la vedo soddisfatta dalle cure dell’istituto nel quale à ricoverata, io mi sento terribilmente colpevole per averla allontanata dalla sua casa”.
Ancora: “Mia moglie è da qualche settimana in una casa di riposo lontana dalla città in cui vivo. Mi sento così triste e colpevole di averla ricoverata lì, che vado ogni giorno a trovarla per farmi perdonare, percorrendo chilometri in autobus o in treno. Sono esausto. Non godo di nessun senso di sollievo. E quando torno a casa, la solitudine mi è insopportabile”.

Il ricovero viene vissuto come un tradimento ed il senso di colpa è talvolta così forte da compromettere i vantaggi del periodo di sollievo. Il familiare ha la sensazione di aver strappato il congiunto, la madre o il padre dalla propria casa, dagli ambienti a lui familiari, dalle piccole routine che avevano tessuto la rete di sicurezza nella quale trovava i suoi punti di riferimento. Egli finisce per assumere la piena responsabilità di questo strappo e ne soffre come se avesse tradito la fiducia della persona amata. E’ importante combattere queste reazioni negative, cercare di sfruttare appieno il periodo di pace e di libertà e approfittarne per ricaricarsi. Infatti, il caregiver avrà bisogno di nuove forze per far fronte alle inevitabili difficoltà che sorgeranno al ritorno a casa del familiare. Inoltre questo momento di libertà non deve diventare un’angoscia che poi si riverserà sul malato, vanificando l’obiettivo stesso del ricovero, e cioè di dare sollievo non solo al caregiver ma anche al paziente. Occorre convincersi che il proprio familiare si trova bene, che è ben inserito nella routine della struttura di sollievo, e che magari ha potuto allacciare rapporti amichevoli con altri pazienti. In altre parole, il caregiver deve rendersi conto che la sua presenza permanente a fianco del familiare non è indispensabile. Questa presa di coscienza gli permetterà di ritrovare se stesso e sarà l’occasione di godere con cuore sereno gli svaghi che la malattia aveva interdetto, progressivamente sacrificati sull’altare di un accadimento totalizzante.

Federica Caracciolo

L’Alzheimer e la sofferenza

La persona affetta da demenza è portatrice di una grande complessità di disagi psico-fisici. Il malato spesso soffre di patologie che hanno preceduto l’insorgere della malattia e per le quali le cure non devono essere interrotte. Ma il vero problema per il caregiver sono le nuove patologie che a volte compaiono quando il malato non è più in grado di descriverle. Può trattarsi di una semplice cefalea per la quale il paziente, quando gli si chiede dove ha male, invece di indicare la testa mostra l’addome o la spalla. Può trattarsi di stitichezza, disturbo che si manifesta con agitazione e incapacità di rimanere seduti, ma che il malato non mette in relazione con il suo bisogno di evacuare.

In certi casi, soprattutto in chi usa spesso la sedia a rotelle, il dolore proviene dalla lombaggine e provoca il rifiuta ad alzarsi ed il resistere all’invito di uscire per la passeggiata mattutina, che normalmente il malato compie volentieri. Infine, se interviene un’influenza con febbre alta, allora la confusione mentale ed il disorientamento si intensificano e rendono molto più difficile il controllo e la gestione del paziente, spesso preda di allucinazioni.
Tutti questi sintomi di uno stato fisico disturbato provocano diversi tipi di sofferenza, che il caregiver dovrà saper riconoscere per poter offrire sollievo e conforto al malato incapace di esprimere i propri disagi. Occorrerà allora un attento esame e molta esperienza per individuare l’organo affetto da patologia e la causa della sofferenza. Per questo s’impongono una sorveglianza costante al fine di captare eventuali cambiamenti di umore, una profonda intuizione per interpretare ciò che il malato non riesce ad esprimere, e la capacità di osservare se il comportamento è diverso del solito e se sia il caso di far intervenire un medico.
Molte delle sofferenza fisiche, con il loro bagaglio di dolore, che spesso superano la capacità di tolleranza del malato, possono essere ridotte o addirittura eliminate con terapie farmacologiche.

Ma che dire, d’altro canto, delle sofferenze psichiche ben più insidiose, che minano la resistenza del malato e spesso sono altrettanto gravose di quelle fisiche? A volte i farmaci che dovrebbero aiutare a combattere l’angoscia del malato falliscono; il malato si accorge gradualmente della scomparsa della propria memoria, dell’incapacità di riconoscere persone care, del disorientamento e della confusione che permea il suo cervello, dell’impossibilità di esprimersi in modo comprensibile, della ricerca affannosa della parola giusta, dell’incapacità di seguire discorsi logici, del disagio che prova nei rapporti sociali e dell’inevitabile isolamento che ne è la conseguenza. Che dire degli sforzi che, nella prima fase, fa il malato per mantenersi nella corrente della vita normale, per continuare a prendere le decisioni ed assumere le responsabilità che un tempo erano sue incombenze, per accettare senza ribellarsi l’interdizione di guidare la macchina di cui un tempo era il padrone, o semplicemente per opporsi con fermezza al divieto di uscire di casa?
Sono queste e tante altre le privazioni ed i disagi che il malato è costretto ad accettare. Di fronte agli ostacoli innalzati ed applicati dai suoi familiari, valgono poco gli sforzi che compie per recuperare la propria autonomia. Si trova di fatto intrappolato e non gli rimane che la resistenza e la ribellione, che spesso si trasformano in aggressività.
Ma può il caregiver destreggiarsi di fronte a tanti problemi imprevisti ed imprevedibili per i quali non è sempre stato preparato?
Il suo compito, tenendo conto di tali complesse problematiche, sarà di organizzare e mettere in atto una vita armoniosa e gratificante che dia al malato la sensazione di aver conservato il suo posto nella famiglia e di svolgere ancora un ruolo importante ed utile nella società. Una sfida non facile.

Federica Caracciolo

E’ lecito ingannare il malato?

E’ lecito ingannare il malato? Questa domanda viene posta ripetutamente dai familiari di malati di Alzheimer durante le riunioni dei nostri gruppi di sostegno. Si? No? Certo, si tratta di un delicato problema etico che va esaminato nel contesto di ogni singola situazione. Il caregiver che accudisce un malato di Alzheimer e deve creare e applicare le proprie strategie, è tenuto, sì, ad aiutare il paziente ma anche a salvaguardare il proprio equilibrio mentale, ed a volta una menzogna è proprio la risposta a questo dilemma.
Ho ascoltato molto spesso il familiare chiedere: cosa devo fare quando mio marito, animato da un desiderio quasi ossessivo – che si manifesta sopratutto la sera all’imbrunire, ora in cui si acuiscono i disagi – insiste per uscire e tornare a “casa sua”? Come distogliere la sua attenzione dalla porta d’ingresso davanti alla quale si piazza scuotendo con determinazione la maniglia? O ancora, come posso convincere mia madre a non tornare in cucina e preparare una seconda volta il pasto appena consumato? Come persuadere mia moglie che la persona appena assunta quale badante non ha l’intenzione di spodestarla ed occupare ai fornelli il posto che à stato suo per tanti anni? Come evitare che mio padre, improvvisamente intollerante degli indumenti che indossa, cerchi con risolutezza di liberarsene appena lo abbiamo vestito?

Di fronte a simili atti irrazionali, molte persone sono prese dalla disperazione, ricorrono a vani ragionamenti e spesso si abbandonano a stressante arrabbiature. E’ qui che, con po’ d’inganno e qualche stratagemma, il nodo si può sciogliere.
E’ ragionevole ed anche saggio fare indossare al marito il capotto ed accompagnarlo “a casa”, facendogli fare invece il giro del palazzo e riportandolo a casa, dove si convince presto di essere finalmente tornato all’agognata vecchia dimora. E’ anche strategia corretta, invece di cercare insistentemente a convincere la madre a non rimettersi a cucinare, annunciare che è mancato all’improvviso il gas e incitarla, in attesa che torni, a sedersi vicino alla nipotina per leggerle la fiaba serale.
Se la badante appena assunta crea malumore e diffidenza,è giusto spiegare che si tratta di una amica venuta a dare una mano, e che non intende minimamente appropriarsi delle redini di casa. Anzi, avviene spesso che col tempo il malato si abitui a questa presenza estranea e che, dimenticando l’irritazione iniziale, finisca per affezionarvisi.
Ed è anche corretto di fronte all’ossessivo spogliarsi del padre proporgli un’alternativa. Per esempio, porgergli il pigiama o la vestaglia, facendo finta che è sera ed ora di prepararsi a dormire.

Se è vero che così incoraggiamo la menzogna, a volta è l’unico modo di evitare uno scontro, di attenuare l’aggressività del malato contraddetto, di assicurare la pace e la serenità del focolare.
Allora, direi sì, usiamo pure l’inganno ma a condizione che sia fatto con molta discrezione, molto amore, senza mai ledere la dignità del malato, nell’intento non di riportarlo con la forza alla nostra realtà, ma di aiutarlo a vivere armoniosamente la sua.

Federica Caracciolo

E se cadesse…

La caduta è una delle grandi minacce che pesano sui nostri malati e un’angoscia per i familiari. I pericoli sono tanti, soprattutto perché il malato non è sempre in grado di controllare i propri gesti e, via via che si deteriorano le sue funzioni mentali, diminuisce la coordinazione dei suoi movimenti e l’equilibrio, aumentando le situazioni di rischio.
Alcuni di noi vivono dunque con questa minaccia e questa angoscia crescente: il minimo rumore fuori dall’ordinario getta nel panico, siamo sempre nell’attesa di sentire il rumore sordo di un corpo che cade e passiamo le notti in allarme.

Così com’è impossibile prevedere la caduta, è anche difficile prevenirla.
All’inizio della malattia, quando vivevamo soli, mio marito ed io, non mi ero ancora attrezzata per un’eventuale caduta dal letto, Quando ciò avveniva, mi limitavo a mettergli un cuscino sotto la testa e un coperta addosso, aspettando la mattina per chiamare i miei vicini. La giovane coppia si prestava con molto comprensione e disponibilità. Ma rimaneva l’angoscia. E se fossero già andati al lavoro? E se ad un certo punto si fossero stancati di queste incessanti richieste? Che cosa avrei fatto?.
Il risultato è stato l’inseguimento perpetuo del malato, la chiusura a chiave della cucina e del bagno, i due ambienti dove si trovano gli ostacoli a mio parere più pericolosi. Per me erano giornate spossanti, cauterizzate dall’impotenza e da una paura costante.

Quando mi sono decisa ad assumere un badante, le cose naturalmente sono migliorate, perché potevo contare sull’aiuto di un ragazzo giovane e forte.
Ma rimanevano le giornate festive, durante le quali la responsabilità della sorveglianza ricadeva interamente su di me. Tenevo, per esempio, mio marito nel suo letto (con le sponde) il più a lungo possibile. Per lui si trattava solo di una temporanea costrizione senza particolari disagi (portava i pannoloni), alla quale metteva fine l’arrivo eventuale di un sostituto.
Ma non sempre era così. Una domenica in cui era stato impossibile trovare un aiuto, Francesco ha fatto un’altra delle sue rumorose cadute, e mentre mi assicuravo che non si fosse fatto male, ma nella totale incapacità de sollevarlo, il campanello del mio appartamento ha suonato. Si sono presentate due giovani donne, socie della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, che aveva sede nel nostro quartiere. Le ho accolto calorosamente e, promettendo di leggere le loro brochure divulgative, le ho pregate di aiutarmi ad alzare Francesco. Da quel giorno sono diventate regolari visitatrici di casa nostra la domenica, io sfruttando la loro disponibilità e loro sperando di fare di me un’adepta.
Ma, naturalmente, questa situazione non poteva durare a lungo e le cadute non coincidevano sempre con la visita delle due giovani! Mi è stato consigliato allora di sbarazzarmi di alcuni mobili, che rappresentavano ostacoli pericolosi sul percorso delle peregrinazioni ossessive di mio marito attraverso la casa; mi è stato suggerito di foderare di gomma piuma gli angoli più spigolosi, fonti sicure di ferimento in caso di caduta. Il mio fornitore d’articoli sanitari insisteva per farmi comprare o affittare un sollevatore elettrico munito d’imbracatura per risolvere i problemi dei giorni festivi.

Avevo già sacrificato la sala da pranzo per ospitare il badante, la camera da letto era invasa da un ingombrante letto da ospedale, una sedia a rotelle bloccava spesso l’ingresso degli ambienti … e adesso avrei dovuto installare una “grù” nel già ridotto soggiorno?
Non ho fatto niente di tutto questo. Francesco, con la sua istintiva conoscenza della posizione dei mobili di casa, ha saputo evitarli e si è raramente ferito. Sembrava avere delle antenne che gli permettevano di valutare con sorprendente precisione gli spazi percorribili senza pericolo.
Col senno di poi, consiglierei dunque di essere un po’ fatalisti, attenti e cauti, sì, ma di non fare della caduta un’ossessione nuova, né di diventare preda di altre angosce da aggiungere al carico già pesante di quelle esistenti ed inevitabili.

Federica Caracciolo

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